Intervista al Fatto Quotidiano del 16.05.2015

L’imprenditore Alfredo Romeo: “Ai pm serve onestà, altro che responsabilità civile”. L’intervista di Marco Travaglio per Il Fatto Quotidiano del 16 maggio 2015.

Avvocato Alfredo Romeo, lei ha fatto 79 giorni a Poggioreale, poi è stato condannato in primo e secondo grado, infine assolto in Cassazione nel processo di Napoli sugli appalti pubblici a una delle sue società. Ora, specie alla luce del caso Chieti, si torna a discutere della nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati. Lei, se fosse stata in vigore in precedenza, che avrebbe fatto? Avrebbe denunciato lo Stato, e dunque indirettamente i “suoi” magistrati?

Il vero problema non è quello della responsabilità civile dei magistrati, ma quello della loro competenza e della loro onestà intellettuale. Il dato oggettivo è che molte ipotesi accusatorie sono prive di riscontri certi, mentre andrebbero articolate con prudenza tenendo conto dei possibili effetti devastanti sulla vita delle persone e delle aziende. Lei, mi par di capire, ritiene che la legge sulla responsabilità civile ha un carattere punitivo e che i risarcimenti richiesti andrebbero a colpire i magistrati. Secondo me si tratta di un falso presupposto: il principio di responsabilità, in una società matura, non faziosa, deve valere in egual misura per tutti: per il politico come per l’operaio, per il magistrato come per l’imprenditore e così via. Personalmente mi limiterei a chiedere nei modi di legge il risarcimento del danno subìto, da devolvere naturalmente a finalità assistenziali, ma senza inutili intenti punitivi. Una responsabilità grave ricade anche su certa stampa, che per la fretta di informare subito e stupire, condanna precocemente, senz’attendere i tempi lenti della Giustizia, che invece è chiamata ad approfondire ogni elemento per accertare la verità. Così le persone (e le aziende) vengono massacrate a prescindere. Con l’aggravante che alla fine un’assoluzione non “vende copie ”quanto una gogna.

La sentenza che la assolve riconosce che lei aveva agganci al Comune che la informavano sulle gare d’appalto. Senza la trasparenza tra concorrenti, è inutile fare le gare: nulla da rimproverarsi?

No. Nulla. Forse una mano sulla coscienza dovrebbe mettersela chi ha spinto al suicidio il povero assessore Nugnes. Nella vicenda che mi ha riguardato, poi, c’è un equivoco di fondo, perché spesso si vuole sovrapporre un malinteso senso di giustizia al principio di legalità, che è il fondamento dello Stato di Diritto e della democrazia. Sono stato arrestato per una falsa e travisata interpretazione dell’articolo 353 del Codice penale, che riguardava “violenze, minacce e mezzi fraudolenti” diretti ad alterare lo svolgimento degli incanti pubblici, e che risaliva al codice Zanardelli del 1889. Testo che a sua volta rivisitava fattispecie criminose risalenti ai codici preunitari e che nulla avevano a che vedere con gli attuali appalti pubblici. Nel mio caso, nessuna norma vietava rapporti e scambi di vedute tra imprenditori e pubblici funzionari o politici fino alla pubblicazione del bando di gara. Solo successivamente alla mia vicenda è stata introdotta una norma (a mio avviso pericolosa), l’art. 353 bis Cp, che di fatto consente di criminalizzare ogni rapporto tra cittadini e PA anche prima del bando delle gare d’appalto. Così si impedisce qualunque confronto tra politica e imprenditoria, con forte danno collettivo. La Pubblica Amministrazione arranca, non conosce i nuovi modelli gestionali, non elabora progetti di lungo periodo. È quindi indispensabile nell’interesse pubblico che l’amministratore, prima di decidere, recepisca dall’esterno – e valuti – ogni competente argomentazione tecnica utile a realizzare opere e/o servizi davvero sostenibili sul piano gestionale e che servano effettivamente ai cittadini. Si tratta dunque di non colpevolizzare, ma dare massima trasparenza a questi rapporti, naturalmente con un limite: il bando di gara, a partire dal quale non venga più ammesso alcun rapporto tra PA e concorrenti fino all’aggiudicazione, nel rispetto della par condicio, della massima concorrenza e di regole certe e trasparenti.

Uno dei giudici del Riesame che si sono occupati di lei è Luigi de Magistris, poi diventato sindaco di Napoli, dove lei ha molti affari in corso. Come sono i suoi rapporti oggi con l’amministrazione comunale? Lei ha continuato ad avere agganci, molto utili per gli appalti, o la vicenda processuale le ha consigliato relazioni più distaccate?

Non ho nessun affare o incarico professionale in corso con alcuna amministrazione locale a Napoli né in Campania. E non è vero che ne ho mai avuti in passato se si esclude, appunto, la gestione del patrimonio immobiliare del Comune di Napoli conclusa nel 2012. E dunque non ho agganci e rapporti –come dice lei –con la politica. Ma, al contrario – e lei non mi crederà – ho il senso civico dell’impresa. Se però a suo tempo il Comune di Napoli avesse voluto mantenere un rapporto tecnico con Romeo Gestioni, non gliel’avrei negato. E forse oggi il Comune non si troverebbe ad avere difficoltà insormontabili a gestire il proprio patrimonio immobiliare. Di più: forse De Magistris non starebbe a dare colpe al governo centrale, non cercherebbe di portare da 10 a 30 gli anni necessari per restituire il debito da oltre un miliardo fatto con la “salva Comuni”; e non dovrebbe fare i conti col buco di bilancio plurimilionario della partecipata Napoli Servizi che non sa fare il mestiere a cui è stata chiamata dal sindaco. Governare una città è una cosa serissima, e per certe cose serve un know how specifico, non gli slogan. Avrà visto l’intervista che mi ha fatto il 14 aprile Ballarò sulle buche stradali di Roma. Spiegavo la follia di queste logiche demagogiche. Alemanno fece scelte del genere e di parte nella gestione delle strade, su cui noi avevamo attivato invece un serio piano industriale con obbligazione di risultato. Marino fa lo stesso: scelte ideologiche e non pratiche sul patrimonio immobiliare e tra 1-2 anni si troverà nella condizione di De Magistris. Uno può improvvisarsi sindaco, non amministratore.


Con la legge attuale sulla responsabilità civile dei magistrati, i suoi destini giudiziari e imprenditoriali sarebbero stati diversi?

I miei destini imprenditoriali non dipendono dalla legge sulla responsabilità dei magistrati, ma dalla capacità, come azienda, di stare sul mercato, di crescere all’estero, di pensare a nuovi modelli gestionali, di integrare sempre più i nostri servizi. Detto ciò, ribadisco che il principio di responsabilità deve valere per tutti, in quanto obbliga i soggetti a prestare la dovuta diligenza su quello che fanno. L’equivoco consiste nella convinzione che alcuni cittadini, solo perché hanno superato un concorso particolarmente selettivo, siano diventati migliori di altri e al di sopra di ogni giudizio. Una vera Casta di intoccabili. Già nel 1742, in uno splendido saggio, I difetti della Giurisprudenza, Ludovico Antonio Muratori diceva che vi erano giudici intelligenti ma non diligenti, bravi e non bravi, bravi e disonesti, e non bravi ma onesti. Constatava che i giudici sono persone come le altre. E già allora si poneva il problema di un Diritto che non fosse oggetto di una continua interpretazione che lo privasse di ogni certezza.

Con i giudici che rischiano di più, molte inchieste su grandi gruppi finanziari potrebbero non farsi più. Lei è un imprenditore, ma anche un cittadino. Non la preoccupa questo rischio?

In astratto no, perché con le dovute competenze unite a prudenza, equilibrio e onestà intellettuale, i magistrati possono indagare anche sui grandi gruppi, senza rischiare nulla. Il problema è che queste cognizioni tecniche spesso mancano, e i magistrati sono privi di un’efficace collaborazione dagli organi deputati. La burocrazia è un labirinto da cui ci si districa con la competenza, non con gli arresti. E la corruzione, ne ho parlato anche al dottor Cantone, si vince con la certezza delle regole, non con gli infiltrati e l’aggravamento delle pene che rischiano di paralizzare ancor di più l’economia.

Ritiene che in Italia si faccia abbastanza contro la corruzione, o avrebbe soluzioni da suggerire al governo e al Parlamento?

Mi faccia fare l’avvocato. Ho parlato di competenza dei magistrati e di burocrazia: nessuna impresa ha interesse a gravarsi di costi impropri e di rischi penali. Le imprese vorrebbero misurarsi solo sulla qualità dei loro prodotti e servizi. Perché è lì che si può fare sviluppo e avere margini. Ma tra maglie della burocrazia, incertezza delle regole e variabili interpretative, la corruzione diventa un rischio fisiologico. E paradossalmente solo chi ha una grande forza economica può difendersene. I piccoli sono stritolati da un sistema dove il confine tra concussione e corruzione è troppo labile. Un suggerimento lo do: porre un’attenzione normativa al tema della concussione, che è fisiologica ovunque ci sia un rapporto dominante di una parte a sfavore dell’altra, come appunto nei rapporti con la PA. Il cui potere è tutto nella rete degli “atti dovuti” a cui essa sottopone le controparti.

Lei ha sostenuto Renzi anche finanziariamente. È soddisfatto della sua linea sulla giustizia? Che pensa dei suoi frequenti scontri con la magistratura? E della sua decisione di candidare condannati decaduti come De Luca in Campania o indagati come la Paita in Liguria?

Renzi fa bene ad andare per la sua strada, che è quella dell’esercizio del potere esecutivo. Il principio di non colpevolezza previsto dalla Costituzione comporta che tutti (compresi De Luca e Paita) possono esercitare i propri diritti di elettorato attivo e passivo fino all’eventuale condanna definitiva. Ciò detto, il nostro -notavano 40 anni fa giuristi di sinistra come Barcellona e Cotturri –  è un Diritto borghese del primo 800: dunque per pochi, nel cui ambito i nostri giuristi pretendono, ancora oggi, di ricondurre società e situazioni totalmente differenti, e che andrebbe totalmente ripensato alla luce della natura e della velocità della società contemporanea. Un disegno epocale che richiederebbe un sapere nuovo. Al presidente Renzi suggerirei di lanciare questa sfida, per lasciare un segno nella storia d’Italia.

Nelle città in cui lavora, qual è quella con le gare meno trasparenti e il rischio corruzione più alto?

Tutte le gare a cui ho partecipato sono caratterizzate da requisiti e incertezze interpretative tali da alimentare una sicura successiva conflittualità davanti ai tribunali amministrativi, che ormai sono diventati le vere commissioni aggiudicatrici delle gare di appalto. La grande corruzione, intesa in senso lato come indebita appropriazione di risorse pubbliche, quella che veramente grava sui destini del Paese e che andrebbe prioritariamente stroncata, è formalmente lecita e si realizza con grandi e inutili moltiplicatori di costi: come le opere pubbliche interminabili, la mancanza di certezze giuridiche, la proliferazione di organismi pseudo indipendenti di tutela e garanzia fine a se stessi, l’invenzione di veicoli giuridico-finanziari inutili e dannosi per una sana competizione di mercato, l’espansione di meccanismi assistenziali di disuguaglianza legalizzata a vari livelli, l’indebitamento improduttivo come parametro di sviluppo. In estrema sintesi il vero mostro che divora ogni speranza è quello della “legalità diseguale” del capitale finanziario e delle caste che con esso convivono, ma in posizione subalterna. Per affrontarlo servirebbero pensiero e azione politica di alto profilo. Ci vorrebbe un Mazzini, non le manette.

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