“La ricchezza immobiliare privata italiana sfiora i 6mila miliardi di euro. Mentre quella in mano alle pubbliche amministrazioni italiane vale tra i 460 e i 480 miliardi di euro, ma si tratta di asset che vanno mantenuti e valorizzati”. E’ una dichiarazione della ministra alla Pubblica Amministrazione, Fabiana Dadone, rilasciata nel corso del Re-Italy Forum organizzato da Monitor Immobiliare. Una dichiarazione su cui ho rimuginato per settimane, tra l’infastidito e l’incredulo, prima di decidere di espormi in una considerazione collettiva che, spero, troverà eco e riscontri in un mercato complesso che di tutto ha bisogno, tranne che di una tanto avvilente ovvietà.
Ma come? – mi sono chiesto – sono decenni che si parla di come affrontare e sostenere in una visione complessiva e nazionale la risorsa del patrimonio immobiliare delle Pubbliche Amministrazioni, e la giovane ministra, invece di arrivare a ragionare di norme, proposte, strategie, incentivi, traiettorie possibili per rilanciare il mercato, tira fuori dal cilindro la formula della banalità? Allora è vero che siamo alla frutta, che il mercato è abbandonato a se stesso e che il vero nodo della politica italiana è la mancanza di consapevolezza, prima ancora che di strategia?
Ma certo che è così. Un Paese che perde mesi di dibattito politico per rompere un principio basilare della Costituzione come la prescrizione; che si taglia da solo le gambe, approvando norme di pura intimidazione alle imprese e ai funzionari della Pubblica Amministrazione come quelle sulla corruzione o sulle intercettazioni; e che si paralizza per un allarme influenzale ancorché grave come quello da coronavirus, è destinato al default per la mancanza un ingrediente basilare della vita economica generale: la politica.
So di apparire come il solito Pierino guastafeste, che magari vuol portare acqua al proprio mulino, ma invito tutti i colleghi imprenditori – e anche i manager grandi e piccoli della nostra burocrazia – a fare un esame oggettivo della situazione e a negare l’oggettività di quanto ho appena affermato.
Per pura demagogia si parla di mettere sul mercato i beni immobiliari dello Stato, ben sapendo che con quelli non si farà mai cassa, e mai sufficiente, comunque, a risanare anche un piccolo frammento del nostro debito pubblico. E nessuno dice che invece il nodo è la valorizzazione e la messa reddito degli stessi, con politiche normative finalizzate a rigenerare il mercato e il suo indotto.
Non basta. Da anni si fanno battaglie demagogiche (A Roma, Milano, Napoli e in tutte le grandi e piccole città italiane) per riportare la gestione (del property e del facility) dei patrimoni pubblici territoriali a una gestione internalizzata, rinunciando alle professionalità del mercato, con esiti devastanti in termini di redditività degli stessi patrimoni (dalle dismissioni ai canoni, per non parlare soprattutto delle regolarizzazioni contro evasione ed elusione) aprendo voragini abissali nei bilanci degli enti proprietari, siano essi Comuni o grandi Enti, con un depauperamento e una dispersione delle risorse, che grida vendetta rispetto alle opportunità reali che si potrebbero perseguire, se solo si avesse una visione politica – appunto – di che cosa serve, per quanto tempo, e con quali finalità.
Non diversamente si parla di gestione e manutenzione del territorio e delle città, senza però che mai un filo conduttore sia steso a far da guida a discussioni e progettazioni del futuro. L’importante, infatti, è sempre e solo rispondere a una emergenza. Spesso nemmeno reale, ma banalmente quella che più colpisce l’opinione pubblica in quel momento.
Grandi metropoli come Roma, Milano e Napoli hanno perso la capacità di ottenere la migliore redditività dai loro patrimoni; il territorio italiano si sbriciola tra frane e crolli, e l’unico risultato è una battaglia demagogica non per risanare, ma per tamponare e non recuperare il giusto dalle concessioni. Il caso del ponte di Genova è indicativo: si ricostruirà tra squilli di tromba in un anno il “simbolo del peccato”, ma non si avvierà una autentica politica di risanamento della rete stradale e autostradale, perché il ritiro delle concessioni aprirà vertenze giuridiche e non cantieri, che invece si potrebbero attivare proprio facendo leva sulle concessioni. E allo stesso modo non si coglierà l’occasione del clima generale, per mettere al centro della pianificazione economica nazionale la “leva-città” la quale, tra risanamento edile, riqualificazione energetica, riorganizzazione e modernizzazione gestionale, ampliamento dei servizi alle comunità complesse che oggi fanno delle città il centro nevralgico di ogni evoluzione e sviluppo economico, potrebbe rappresentare il punto di partenza di un gigantesco rilancio economico di sistema e di lungo periodo, dunque non solo congiunturale per l’Italia.
E invece la ministra Dadone, risolve dicendo che i beni immobiliari della PA devono essere manutenuti e valorizzati. Brava, sette più, avrebbero detto Cochi e Renato 50 anni fa.
Non mi aspetto, in verità, che la giovane ministra sappia chi fossero i due grandi comici, né che sappia, ovviamente di cosa sta parlando. Per questo, anche da queste colonne lancio ancora una volta un appello per aprire al più presto una conferenza dei servizi sul tema “Città d’Italia, motore della rinascita”. Confrontiamoci, portiamo progetti, suggeriamo rivoluzioni normative, creiamo nuova fiducia tra politica e impresa, abbattiamo il muro del pregiudizio, che fa di chi lavora un sospettato per definizione. Ridiamo opportunità ai nostri figli rigenerando il Paese a partire dalle sue città- Usciamo da questo Medioevo dell’intelletto che relega ogni speranza nell’angolino buio creato da chi governa e amministra senza sapere di che cosa sta parlando, senza sapere come se ne potrebbe parlare.
Sono sicuro che la ministra Dadone, e molti suoi compagni politici (quale sia lo loro collocazione di parte, dentro e fuori il governo), rimarrebbero allibiti nello scoprire quante cose mirabolanti e meravigliose – e utili e durature – si potrebbero fare per il bene di questa amata Italia, se solo si sedessero intorno a un tavolo con gli odiati imprenditori, i sospetti amministratori, gli inaffidabili esperti.